L’Uso terapeutico della parola nel trattamento del malato Alzheimer

(Relazione presentata al Convegno SIMP 1999)

Dott. Pietro VIGORELLI (1)

Medico e psicoterapeuta, promotore del sito www.formalzheimer.it, Responsabile della UOS di Medicina riabilitativa dell’AO-Ospedale San Carlo Borromeo, Milano

Il malato Alzheimer è un paziente che tende a parlare sempre di meno. I deficit di memoria che caratterizzano la malattia fin dallo stadio iniziale comportano varie conseguenze sfavorevoli che non sono direttamente collegate con il danno neurofunzionale a livello del sistema nervoso centrale. Infatti i tentativi di comunicazione verbale che il paziente mette in atto con chi gli sta vicino, i parenti conviventi in particolare, sono spesso frustranti per il paziente e provocano insofferenza nell’ascoltatore in quanto la funzione comunicativa del linguaggio tende a deteriorarsi precocemente. Il paziente parla, ma le parole che usa non sono adatte a comunicare quello che vorrebbe. Si verifica un fallimento comunicativo che provoca frustrazione, poi rabbia, poi reazione depressiva fino all’abbandono dell’uso della parola per evitare di incorrere in un nuovo insuccesso.

Viene così ad instaurarsi un circolo vizioso tra decadimento cognitivo, scarso uso della parola, isolamento e decadimento globale.

Questa osservazione, se da una parte fotografa la realtà triste e talvolta disperante dei malati Alzheimer e dei loro familiari, dall’altra apre nuove speranze e nuove vie di trattamento. Infatti il danno neurologico provocato dalla malattia (le placche amiloidi a livello extracellulare e i grovigli neurofibrillari all’interno dei neuroni) è irreversibile, ma il danno funzionale, cioè il modo in cui si manifesta tale danno, sotto forma di deficit, di perdita di capacità, non è tutto irreversibile. Esiste una quota di danno, il danno aggiuntivo (che dipende dalla interazione tra il paziente e l’ambiente) che è reversibile.

Partendo da queste constatazioni Giampaolo Lai, psichiatra e psicoanalista, fondatore dell’Accademia delle tecniche conversazionali, ha lanciato la sfida di trattare il malato Alzheimer con le parole, considerando che sono le parole ad essere malate e che sono quindi le parole che devono essere medicate. A partire dal 1999 un gruppo di ricercatori dell’Accademia (tra cui lo scrivente) ha sperimentato e perfezionato tale terapia, la terapia conversazionale. L’obiettivo di tale terapia è di rompere il circolo vizioso descritto sopra e di innescare invece un circolo virtuoso che parte da una speciale attenzione alle parole e cerca di arrivare al maggior grado possibile di felicità conversazionale. L’attenzione infatti viene spostata dai deficit alle facoltà residue, in modo da tener viva il più a lungo a possibile la capacità dei pazienti di usare la parola, anche quando la funzione comunicativa comincia inesorabilmente a decadere.

Nel libro “La conversazione possibile con il malato Alzheimer” (1) gli autori mostrano chiaramente che questo è possibile. Infatti partendo dal testo di conversazioni registrate e trascritte si può osservare che pazienti abitualmente mutatici sono ancora in grado di conversare se l’interlocutore impara a rispettare i turni di parola, acquistando la sensibilità di capire quando tacere e quando parlare e quali parole dire. È necessario concentrarsi nella conversazione in modo da riuscire a cogliere il senso di quello che ci dice il paziente, con le sue parole monche e sconnesse, magari in modo a prima vista incomprensibile. Se noi poi restituiamo al paziente quello che abbiamo capito o abbiamo creduto di capire del suo dire (“il motivo narrativo”) la conversazione decolla, il paziente esce dal suo torpore, l’isolamento e la rabbia lasciano il posto alla soddisfazione di riuscire comunque a conversare. Il paziente si sente riconosciuto come un interlocutore valido e non abbandona l’uso della parola. Realtà o fantasia? Episodi unici e irripetibili?

Per togliere i risultati dal dominio del caso gli autori descrivono numerose tecniche che si possono imparare ed applicare nelle situazioni più disparate della vita quotidiana e dei colloqui professionali, dal non interrompere, al non fare domande, al restituire il motivo narrativo. Il libro infatti è concepito come uno strumento formativo e accompagna il Lettore, sempre partendo da esempi reali, nell’acquisire una nuova capacità di conversare con i malati Alzheimer, traendone una non piccola soddisfazione personale.

(1) Pietro Vigorelli (a cura di) (2004): La conversazione possibile con il malato Alzheimer (presentazione di Marco Trabucchi, prefazione di Giampaolo Lai). Ed. Franco Angeli. Pag. 382, Euro 26.50.